Testimonianze della cultura umana
nel Parco dell’Adamello
Nel Parco dell’Adamello, di particolare rilievo ed importanza è la documentazione iconografica rappresentata dalle incisioni rupestri preistoriche ritrovate in alcune località all’interno dell’area protetta. Nel V-VI millennio a.C. compaiono le prime raffigurazioni di esseri umani, rappresentati nella tipica posizione con le braccia alzate ad orante, abbinate a figure e simboli derivati dal mondo agricolo e pastorale: animali addomesticati (come canidi e bovidi) o simboli circolari e schematici. Allo stesso periodo dovrebbero appartenere anche i numerosi ritrovamenti effettuati nell’area del Parco ad altitudini superiori ai 1000 metri nei comuni di Malonno e Berzo Demo (località Monte), dove sono state rinvenute asce in pietra levigata.
Inizialmente le figure sono isolate e sporadiche per divenire via via sempre più complesse fino ad articolarsi in scene. Esse sono documentate nel Parco di Naquane a Capo di Ponte e nella Riserva Regionale delle Incisioni Rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo.
Un’ondata di influssi ideologico-religiosi di matrice indoeuropea accomuna tra loro alcune tra le principali aree delle Alpi e introduce anche due fattori di primaria importanza economica e tecnologica: la lavorazione del rame, i primi strumenti in metallo ed i carri a ruota, documentati sulle statue-stele camune.
Questi influssi tecnologici e ideologico-religiosi determinano profondi mutamenti all’interno delle comunità locali: la struttura stessa della società tardo-neolitica si modifica, determinando nuovi ruoli e una più marcata stratificazione sociale. Il periodo successivo, chiamato Età del Bronzo, vede il consolidarsi dei processi innescati con l’introduzione della metallurgia, lo strutturarsi di centri di produzione metallurgica e l’avvio di commerci organizzati. In tale contesto si vengono sempre più definendo ruoli e competenze all’interno delle comunità: artigiani, commercianti, agricoltori e un potere militare sempre più forte, in cui le armi acquistano sempre maggiore importanza. Nell’arte rupestre divengono infatti dominanti, se non esclusive, le raffigurazioni di armi riprese con dovizia di particolari ed accuratezza. Si tratta per la maggior parte di oggetti di prestigio: asce, alabarde, pugnali, mazze, mentre sono quasi totalmente assenti oggetti di uso più comune, come l’arco e la lancia. Ad una tarda fase dell’Età dei Bronzo appartiene un repertorio figurativo già presente nelle composizioni precedenti: le “mappe topografiche”, caratterizzate inizialmente da insiemi estremamente semplici di linee curve, rettangoli e coppelle, sino a giungere, nella fase successiva di sviluppo, a rappresentazioni topografiche complesse. La montagna viene suddivisa in un settore superiore, dove si trovano gli insediamenti stagionali estivi, mentre villaggi e castellieri, con le attività e le economie sedentarie, sono collocati nelle fasce altimetriche sottostanti. Ne è testimonianza il ritrovamento, all’interno del Parco Adamello, di recinti con grandi muraglioni megalitici e fondi di capanna che, ad una prima analisi, si possono far risalire alla fine dell’Età del Bronzo e all’inizio dell’Età del Ferro. L’ultimo millennio a.C. è caratterizzato dall’affermarsi anche in Italia delle prime grandi entità politiche interregionali.
Le incisioni, in questa fase, si arricchiscono di nuovi temi e simboli, alcuni di chiara provenienza esterna (etrusca, celtica e poi romana). L’Età del Ferro è il periodo di massima proliferazione dell’arte rupestre in Valcamonica: le rocce si arricchiscono di migliaia di figurazioni in uno stile più proporzionato e dinamico rispetto alle precedenti. Pur nella grande diversità, si evidenziano alcuni elementi ripetitivi: compaiono insiemi scenici con figure umane che illustrano momenti della vita quotidiana e rituale della comunità valligiana (scene di caccia, di lotta, mitologia) e viene elaborata una simbologia estremamente complessa (stelle a 5 punte, insiemi di coppelle etc.). L’immagine che ne scaturisce è quella di una comunità assai articolata. Intorno al 200 a.C. l’iconografia camuna inizia a decadere: le figure perdono dinamicità e divengono sgraziate nella ripetizione stereotipata di duelli e combattimenti. Questa fase di decadenza potrebbe essere stata determinata proprio dai primi rapporti con la civiltà romana: le antiche cronache storiche testimoniano contatti tra gli eserciti romani ed i “popoli inselvatichiti’ che abitavano le Alpi. Livio, ad esempio, racconta di incursioni e disturbi di queste tribù ai danni delle legioni di Roma, fatti che portarono ad una campagna militare romana contro i “Camunni” ed altre genti, conclusasi con la conquista di queste valli da parte di Roma, nel 16 a.C. Fu la fine, sia in termini militari sia culturali, del mondo camuno: la cultura romana, con la sua organizzazione, la sua economia e la sua religione, permeò il mondo valligiano che già attraversava una fase di decadenza. Le antiche tradizioni furono abbandonate e solo durante il Medioevo ricomparvero sporadiche testimonianze di un’iconografia rupestre ispirata dai nuovi motivi religiosi del Cristianesimo. Poco per volta, la terra e la vegetazione ricoprirono le rocce istoriate e solo recentemente il lavoro degli archeologi le sta riportando alla luce.
Nel corso del Primo conflitto mondiale l’estremità occidentale del fronte italo-austriaco attraversava i due imponenti gruppi montuosi dell’Ortles-Cevedale e dell’Adamello-Presanella, per cui le due parti in lotta furono costrette a combattere, per oltre tre anni e mezzo, una guerra tipicamente alpina, su postazioni di roccia e ghiaccio ad oltre 3000 metri di quota, in condizioni ambientali e climatiche difficilissime.
Il solo vivere a quelle quote costituiva per i soldati un enorme problema: l’inverno durava otto mesi ininterrotti, con nevicate abbondanti da ottobre a maggio ed altezze medie della neve dai 10 ai 12 metri. Il freddo, implacabile nemico quotidiano, oscillava mediamente in questo periodo dai -10° ai -l5° con punte notturne da -20° a -25° ed anche oltre. In questo “inferno bianco” gli alpini italiani e i soldati austriaci, oltre a combattere fra loro, dovevano anche sopravvivere alle estreme condizioni ambientali, fra cui le implacabili e micidiali valanghe che, in proporzione, causarono più vittime che non gli effetti dei veri e propri combattimenti.
Sull’Adamello tutte le azioni, svoltesi nei diversi anni, tendevano sostanzialmente a scardinare, direttamente o indirettamente, il caposaldo austriaco dei Monticelli, in modo da poter aver via libera sul Passo del Tonale. Gli Austriaci avevano disposto trinceramenti e scavato numerose caverne lungo la linea del fronte che collegava i Monticelli alle alture del Tonale orientale. Inoltre avevano occupato anche i Passi Paradiso, Castellaccio e Lagoscuro che dominavano la conca di Ponte di Legno.
Il Comando locale italiano, per cercare di rimediare in qualche modo all’inferiorità tattica italiana sul Tonale, progettò un attacco contro le posizioni austriache nella conca di Presena, nell’intento di scacciare gli austriaci da tale zona e riprendere così il controllo dei Monticelli e della sottostante piana del Tonale. L’attacco, che ebbe luogo il 9 giugno 1915, dimostrò l’impreparazione dei nostri strateghi. Si improvvisò un piano d’attacco senza prendere accordi con le artiglierie, il cui appoggio venne erroneamente ritenuto inutile. Quando gli Alpini si presentarono all’imboccatura del Passo Maroccaro, nell’intento di prendere alle spalle le posizioni austriache di Conca Presena e di Passo Paradiso, si imbatterono in un’accanita resistenza da parte di queste truppe, le quali non soltanto tennero validamente testa agli attaccanti ma, con l’appoggio delle artigliere del forte Saccarana di Vermiglio, li costrinsero a ritirarsi.
Le perdite italiane furono assai gravi: 52 caduti fra cui 4 ufficiali, e 87 feriti di cui 3 ufficiali.
Sino a quel momento i combattimenti erano stati abbastanza marginali e circoscritti in direzione del Tonale, ma il 15 luglio 1915 si ebbe un improvviso attacco austriaco, attraverso la vedretta del Mandrone, in direzione del Rifugio Garibaldi, che apri una nuova ed imprevedibile fase di lotta sul ghiacciaio.
Il 12 aprile 1916 venne conquistata la dorsale rocciosa Monte Fumo-Dosson di Genova-Cresta Croce-Lobbia Alta. Il 29 aprile 1916 ebbe inizio la seconda fase della nostra offensiva che portò gli Alpini ad aggredire la ben più munita linea di resistenza austriaca sul margine orientale del ghiacciaio. In alcuni punti gli obiettivi furono raggiunti e consolidati, ma al centro dello schieramento, nei punti maggiormente difesi, gli austriaci si difesero strenuamente e respinsero ogni nostro attacco. La battaglia divenne in breve una tragica e inutile carneficina per i nostri reparti sciatori in tuta mimetica e per le due compagnie del battaglione “Val d’Intelvi” che furono lanciate all’assalto, in divisa grigioverde, sull’immacolato candore del ghiacciaio.
Il 1917 fu un anno di relativa calma sul fronte dell’Adamello, ad eccezione del periodo in cui si svolsero le operazioni che portarono gli alpini alla conquista del Corno di Cavento (m. 3402), l’importante caposaldo avanzato austriaco che costituiva una seria minaccia per l’ala destra del nostro schieramento. Da queste posizioni, esattamente un anno dopo, reparti d’assalto austriaci ripartirono alla riconquista del Corno di Cavento, che effettuarono mediante lo scavo di una galleria nel ghiacciaio e un violento assalto contro la compagnia alpina che difendeva l’avamposto sulla vetta e il “trincerone” sul lato del ghiacciaio.
Il 1918 fu un anno di prove durissime e di combattimenti sanguinosi per le truppe dell’Adamello: in maggio venne finalmente portato a termine un attacco combinato in direzione della Conca di Presena e dei Monticelli per rafforzare le nostre linee sul Passo del Tonale. In questa azione, la più impegnativa e complessa di tutta la “guerra bianca”, vennero impegnati numerosi battaglioni nonché compagnie di mitraglieri e bombardieri, batterie d’artiglieria d’ogni calibro, reparti del genio e servizi d’ogni genere. Dopo accaniti combattimenti, il successo arrise alle truppe italiane, anche se non riuscirono del tutto a scacciare gli Austriaci dalle ultime propaggini dei Monticelli.
Il 1° novembre 1918, quando ormai si era già delineata la nostra vittoria sul Monte Grappa e sul Piave, gli alpini dell’Adamello sferrarono l’assalto decisivo contro le ancora temibili fortificazioni del Tonale, aprendo la via verso il Passo della Mendola in modo da tagliare le vie di ritirata all’esercito sconfitto. Sulle tormentate distese di roccia e di ghiaccio, dopo tre anni e mezzo di durissima guerra, tornavano il silenzio e la pace.
Il ricordo di queste vicende resta memorabile nella storia militare per il fatto che gli alpini e i loro avversari, costituiti per la prima volta in grandi unità organiche di sciatori e di rocciatori, affrontarono le incognite del ghiacciaio, combattendo ad altezze inaudite e in condizioni climatiche spaventose.
Gli straordinari paesaggi del Parco dell’Adamello possono essere apprezzati pienamente solo percorrendo i numerosi sentieri che si snodano sul suo territorio.
La mutevolezza e la diversificazione degli ambienti dell’area protetta, risultano dell’escursione altitudinale di oltre 3000 metri tra la quota minima del Parco e la vetta del Monte Adamello (3539 metri s.l.m.), assegnano al nostro territorio valenze naturalistiche di rara suggestione.
Nuclei rurali, paesaggi agricoli, boschi di latifoglie e conifere, arbusti e praterie alpine, macereti e morene, pareti scoscese, ghiacci perenni: questi sono i paesaggi del Parco, gli habitat d’elezione di numerosissime specie vegetali ed animali, gli scenari della cultura e della storia, nei quali si è combattuto il primo conflitto mondiale.
Nel Parco dell’Adamello le vicende umane si sono intrecciate – e si intrecciano oggi – con l’ambiente naturale. Questo reciproco scambio ci ha trasmesso le rocce istoriate, i paesaggi rurali costruiti dall’uomo, i reperti della Guerra Bianca, i sentieri tracciati sulle montagne sin dai primi del 1800, quando ha preso il via la grande avventura dell’esplorazione alpinistica dell’Adamello.